Quanto è diffuso il fenomeno del greenwashing all’interno del settore tessile e quanto influisce sulle scelte di acquisto dei consumatori finali? Queste sono solo alcune delle domande che hanno trovato risposta nel corso del webinar “Dal Greenwashing ai green claims” organizzato da Erion Textiles, il Consorzio del Sistema Erion dedicato alle aziende del comparto, che si è tenuto, in modalità online, il 23 gennaio scorso. L’incontro, moderato da Raffaele Lupoli, Direttore Editoriale di EconomiaCircolare.com, ha visto la partecipazione e l’intervento di numerosi esperti del settore chiamati ad approfondire una delle pratiche più controverse nel panorama della sostenibilità.
Ad aprire il dibattito è stato Fabio Tognocchi, del Team Strategic Development & Innovation di Erion, che ha definito il greenwashing come: “Tingere di green un processo o un prodotto che nella realtà sostenibile non è”. Per poi aggiungere: “Le imprese, per poter parlare davvero di sostenibilità, devono perseguire azioni concrete e, soprattutto, comunicarle in maniera completa e trasparente”.
Fabio Iraldo, Professore Ordinario di Management presso la Scuola Sant’Anna di Pisa ha sottolineato la necessità di norme chiare e coerenti per evitare che le aziende possano incorrere in casi di greenwashing, anche involontari: “Troppo spesso le imprese parlano di neutralità climatica e carbon footprint con superficialità, attribuendosi caratteristiche “green” che non corrispondono alla realtà”, ha affermato. In questo contesto, infatti, la Commissione Europea ha emesso tre Direttive Generali ai fini di regolamentare la comunicazione legata alla sostenibilità e alla tutela ambientale. Ma c’è di più: “Con la regolamentazione non conta più la distinzione tra buona e cattiva fede: ciò che conta è il risultato, in termini di forma e di sostanza, della comunicazione che viene rivolta al mercato” ha osservato Iraldo, evidenziando poi due pilastri fondamentali. In primo luogo, la comunicazione della sostenibilità deve essere sorretta da dati scientifici e informazioni credibili e dimostrabili. Inoltre, per poter definire un prodotto green in termini generici, è necessaria una certificazione libera di parti terze. Tutto questo ha l’obiettivo di evitare di generare confusione nella mente del consumatore che troppo spesso è portato, a causa del greenwashing, a estendere una sola caratteristica ambientale sostenibile, legata ad esempio al packaging o ad altri aspetti marginali, all’intero prodotto.
Niccolò Cipriani, fondatore e CEO di Rifò ha spiegato come la comunicazione sia un elemento imprescindibile anche nel settore tessile, ma questa dovrà basarsi su principi di concretezza e trasparenza: “Quando si comunica, oltre alle parole, è sempre necessario utilizzare anche i numeri per sostenere la veridicità delle proprie affermazioni”, ha dichiarato. Cipriani ha poi continuato affermando che a volte, per poter diventare veramente sostenibili e “green”, serve rivedere il proprio modello di business sostituendo l’approccio basato sulla quantità con quello incentrato sulla qualità. Una posizione, quella di Cipriani, che ha trovato il sostegno di Marta Macchi, Manager del Team Communications, Marketing & Sales di Erion: “Troppo spesso si proclama un impegno ambientale che nei fatti non corrisponde alla realtà e serve per mascherare pratiche scorrette. Ci si concentra di più sul fare comunicazione green che sul raccontare quello che di green si fa”. Macchi ha proseguito poi spiegando quanto per Erion sia importante comunicare la sostenibilità nel modo corretto, senza lasciare spazio a dubbi o interpretazioni personali, ed è quindi una grande responsabilità perché ogni volta che il Sistema si espone lo fa in rappresentanza dei 2.500 Produttori che ne fanno parte: “È importante fare comunicazione e farla nel modo corretto perché, se il consumatore si sente ingannato, perderà fiducia e acquisterà altrove. Noi di Erion aiutiamo quotidianamente i nostri Soci a far sì che questo non accada, affiancando ciascuna azienda nel valorizzare il proprio impegno ambientale”, ha concluso.
Per comprendere meglio come il fenomeno influenzi la percezione dei consumatori abbiamo chiesto ad Alberta Della Bella, Senior Researcher PBA, e Silvia Andreani, Client Officer di Ipsos, di condividere alcuni dati chiave. Secondo uno studio IPSOS, il 54% degli italiani pensa che il greenwashing sia una pratica comune nel nostro Paese ma solo l’11% vede la moda come uno dei settori più inquinanti: “Questo testimonia un aumento della sensibilità verso queste tematiche ma, al tempo stesso, una consapevolezza ancora limitata” ha evidenziato Della Bella. Un’altra ricerca rivela che ben il 74% della popolazione italiana è interessato alla cosiddetta moda sostenibile e al tema del second hand, anche se in realtà non sa bene il motivo. Questo suggerisce che l’interesse verso la sostenibilità nella moda sia spesso frutto di una percezione parziale e non di una visione approfondita delle reali implicazioni. “Temi come i materiali impiegati sono facilmente accessibili grazie alle etichette, rendendo semplice per i consumatori focalizzarsi su questi aspetti. Tuttavia, ciò rischia di distogliere l’attenzione da una comprensione più ampia della sostenibilità nella moda, che include anche aspetti sociali e tecnici”, ha chiarito Andreani concludendo: “Per questo motivo, i brand devono assumere un ruolo attivo nella comunicazione e per costruire un percorso chiaro e credibile, è fondamentale che i marchi diventino portavoce di pratiche di trasformazione e innovazione, trasmettendo messaggi autentici e trasparenti”.
Il tema è stato approfondito da Emanuele Sacchetto, avvocato presso lo studio legale Andersen in Italy, che ha illustrato le diverse tipologie di green claims contestabili dal punto di vista giuridico. Primi fra tutti i claims assoluti, ovverosia quelli che parlano di sostenibilità in termini totali e generici, senza però entrare nel merito di cosa renda veramente sostenibile un dato prodotto o un dato servizio. La Seconda categoria sotto accusa è rappresentata dai claims perentori: “Si intende la dicitura 100% green o 100% sostenibile”, ha precisato Sacchetto. Infine, risultano contestabili anche i claims apparentemente precisi, che rivendicano caratteristiche sostenibili attraverso messaggi ambigui o formulazioni fuorvianti, generando confusione nei consumatori. La mancanza di dati e prove scientifiche a supporto rende queste dichiarazioni ancora più problematiche.
Questo intervento è confermato anche dai dati presentati da Maria Laviensi, Senior Associate presso lo studio legale Albè & Associati: “Il greenwashing si sostanzia per il 37% con formulazioni vaghe, per il 42% false o ingannevoli, per il 59% non dimostrabili”, ha detto per poi aggiungere: “Comunicare la sostenibilità è importante ma è necessario individuare il codice idoneo”.
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